LA CORTE D’APPELLO CONFERMA LA PRONUNCIA DEL TRIBUNALE E CONDANNA LO STATO ITALIANO A RISARCIRE UNA VITTIMA DI VIOLENZE SESSUALI
(Corte d’Appello di Torino, sez. III, 23 gennaio 2012, n. 106)
La sentenza del Tribunale di Torino n. 3145/10 del 3 maggio 2010 aveva per prima riconosciuto l’inadempimento dello Stato Italiano per la mancata attuazione della direttiva 2004/80/CE del 29 aprile 2004, relativa alla riparazione delle vittime di reato violento e la conseguente responsabilità civile della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
La direttiva 2004/80/CE statuisce per tutti gli Stati UE il seguente obbligo: “Tutti gli Stati membri provvedono a che le loro normative nazionali prevedano l’esistenza di un sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori, che garantisca un indennizzo equo ed adeguato delle vittime” (art. 12, paragrafo 2).In pratica, anche lo Stato italiano dovrebbe garantire ai cittadini e agli stranieri, vittime di reati intenzionali e violenti (omicidi dolosi, lesioni dolose, violenze sessuali) commessi sul territorio italiano, un risarcimento (o, perlomeno, un indennizzo) equo e adeguato, ogniqualvolta l’autore del reato sia rimasto sconosciuto o si sia sottratto alla giustizia o, in ogni caso, non abbia risorse economiche per risarcire la o, nel caso di morte, ai famigliari.
Come espressamente previsto dall’art. 18 della suddetta direttiva, il legislatore italiano avrebbe dovuto: 1) attuare detto sistema entro il 1° luglio 2005; 2) attuare le disposizioni inerenti l’indennizzo in questione nei casi transfrontalieri (cioè nel caso di straniero rimasto vittima in Italia e di italiano vittima in uno Stato membro) entro il 1° gennaio 2006. Lo Stato non si è ancora adeguato ed è ormai l’unico nell’Unione Europea a non averlo fatto.
Peraltro, l’Italia non ha neppure ratificato la Convenzione europea relativa al risarcimento delle vittime di reati violenti(Strasburgo, 24 novembre 1983, entrata in vigore il 1° febbraio 1988), che, avendo anticipato di molti anni la direttiva, prevede nello stesso senso, che, se la riparazione non può essere interamente garantita da altre fonti, lo Stato deve contribuire a risarcire sia coloro che hanno subito gravi pregiudizi al corpo o alla salute causati direttamente da un reato violento intenzionale (stupro compreso) e sia coloro che erano a carico della persona deceduta in seguito a un tale atto.
Il caso approdato all’attenzione del Tribunale di Torino riguardava la terribile esperienza vissuta da una giovanissima ragazza, la quale era stata sequestrata, percossa e violentata per un’intera notte da due ragazzi. I fatti criminosi erano stati accertati penalmente, sennonché i due responsabili si erano resi latitanti nel corso del giudizio di primo grado e comunque non avevano risorse economiche per risarcire i danni riportati dalla ragazza.
La Presidenza del Consiglio dei Ministri si era difesa sostenendo che: la direttiva sarebbe stata attuata con il d.lgs. 9 novembre 2007 n. 204; l’ordinamento italiano già contempla dei sistemi di indennizzo, ancorché solo per alcune specifiche categorie di vittime (quelle del terrorismo e della criminalità organizzata, del disastro di Ustica, della banda della uno bianca, dell’usura). Tuttavia, il Tribunale aveva ritenuto come il d.lgs n. 204/2007 non avesse dato attuazione alla direttiva: “nessuna norma di diritto interno riconosce … il diritto al risarcimento per reati intenzionali violenti diversi da quelli già regolamentati dallo Stato prima ancora dell’entrata in vigore della direttiva”.
La Presidenza aveva altresì sostenuto che rientrasse nella discrezionalità del legislatore nazionale stabilire per quali reati intenzionali e violenti riconoscere l’indennizzo, di fatto affermando di poter escludere la tutela di cui alla direttiva nei casi di violenze sessuali, oltre che nelle ipotesi di omicidio doloso e lesioni dolose non imputabili a terrorismo, mafia e criminalità organizzata. Nondimeno, il Tribunale aveva rigettato anche questa tesi, rilevando che la direttiva “non pare attribuire agli stati nazionali di poter scegliere i singoli reati intenzionali violenti che possono formare oggetto di risarcimento, ma anzi impone loro di prevedere un meccanismo indennitario per tutti i reati intenzionali violenti e dunque anche per i reati di violenza sessuale – reati contro la persona di evidente natura violenta e intenzionale”.
Accertato così l’inadempimento dello Stato italiano, il Tribunale, applicando i consolidati principi sanciti dalla Corte di Giustizia e dalla Cassazione in materia di responsabilità civile per mancata attuazione di direttiva comunitaria, aveva condannato la Presidenza del Consiglio a risarcire le “conseguenze morali e psicologiche” subite dalla ragazza, liquidando in via equitativa la somma di € 90.000 e ritenendo che i pregiudizi, per essere risarciti, non abbisognassero di un’istruttoria (stante le modalità con cui erano stati commessi i fatti criminosi).
Contro questa sentenza aveva proposto appello la Presidenza del Consiglio dei Ministri. In corso di giudizio era poi intervenuta, a sostegno dell’inadempimento dell’Italia e della conferma della sentenza di primo grado, la Procura Generale della Repubblica di Torino, evidenziando nel suo atto di intervento come la tesi sostenuta dalla Presidenza finisse con il trasformare la direttiva in un “mero guscio vuoto”, in primo luogo a tutto discapito delle persone residenti in Italia. La Procura aveva domandato di rimettere la questione alla Corte di Giustizia UE oppure, subordinatamente, di confermare la pronuncia del Tribunale. Tuttavia, la Sezione III civile della Corte d’Appello di Torino, non ha nutrito poi dubbi sull’inadempimento dello Stato italiano, senza ritenere necessario di interessare la Corte di Giustizia.
Confermando la pronuncia del Tribunale e condannando la Presidenza del Consiglio, la Corte d’Appello ha affermato la “diretta applicabilità” della direttiva e concluso che “è certo che l’Italia non ha stabilito un sistema di indennizzo per le vittime di violenza sessuale e pertanto è inadempiente”.
La Corte ha altresì ritenuto nel caso al suo esame comprovata l’impossibilità per la vittima di conseguire il risarcimento direttamente dai due violentatori: “I due imputati si sono resi latitanti nel giudizio di primo grado e tali sono rimasti nel giudizio di appello; non risulta che abbiano mai espresso qualche forma di pentimento e offerto un benché minimo risarcimento; non si vede che utilità pratica potrebbe avere una causa civile proposta … contro di essi”.
Infine, la Corte, pur rilevando tutta la gravità del danno subito dalla ragazza, ha ridotto il risarcimento a € 50.000, ritenendo trattarsi di un indennizzo e non già di un risarcimento.